lunedì 31 ottobre 2011

Dal commento di Sem Paton: il libretto della spesa antenato di Mastercard

Il nostalgico Sem Paton dall'enigmatico pseudonimo invia questo commento in memoria dei bei vecchi tempi.
Agrodolce il ricordo del libretto della spesa, chi sapeva della sua esistenza? Io no...

"da quanto scrivi penso che era meglio la nostra spesa al supermercato, anzi al negozietto di quartiere. Non esistevano codici a barre, su ogni scatola una piccola etichetta indicava il prezzo..
Che lavorone al supermercato: alla mattina molto presto, passando per le strade, si vedeva un operaio che in maniera meticolosa  pezzo per pezzo metteva le etichette..e all’apertura era quasi festa andare a fare la spesa;
Scusa Sem Paton, ti interrompo per un commento personale: senza codici a barre però non si poteva gestire lo stock, gli ordini erano fatti a spanne e non ricordo che la commessa attacca-etichette fosse poi così festosa...

i vecchietti (e non) si trovavano a chiacchierare ed erano contenti di vedersi per scambiare qualche parola.
Ora i carrelli super informatici dove metti la merce e arrivi alla cassa …devi solo pagare con una piccola tesserina che poi esisteva 60 anni orsono…si chiamava libretto della spesa e si pagava quando arrivava lo stipendio o la pensione….penso che si dovrebbe inventare il rumore di una mano….ovvero più serenità e tranquillità nella gente.


Incuriosito da Sem Paton, ho trovato un paio di foto di un antico libretto della spesa che tale Paolo Fumagalli aveva presso il Premiato Forno Moderno di Cantù.
Una Mastercard senza commissioni, forse con un po' più di fiducia nelle persone e un estratto conto meno ordinato.
Niente eguaglia il senso di "essere a posto"  come la scritta "Pagato" in rosso del panettiere.



Per ogni vostro commento ricordo il mio indirizzo e-mail: alessandro.giuriani@gmail.com.
(sempre che non vogliate scrivere direttamente sul blog qui sotto alla voce Commenti)

domenica 30 ottobre 2011

DDD: Il Dilemma del Direttore Depresso

I tartari di Gengis Khan mai crearono tanta desolazione. 
La peste nera del XIV secolo mai rese un luogo più deserto. 
Las Vegas alle 10 del mattino mai ci restituì una realtà più squallida.


Nulla eguaglia lo scenario di vuoto disperato di un immenso centro commerciale in crisi.


Troppo semplice però soffermarsi solo sugli aspetti negativi: clienti rari come in un museo di vasi etruschi, parcheggi vuoti, spazi espositivi in cerca di padrone al pari di cuccioli in canile.
Cosa decidiamo, continuiamo a piangere, tristi per come va questo  mondo crudele? 
Molto meglio esplorare, toccare con mano, capire. E magari provare qualcosa che non è mai stato fatto: quale momento migliore di adesso?
Due giorni fa ho tentato l'esperimento in un mega ipermercato della mia regione, da sempre deserto. Viene quasi voglia di devolvere un sms in suo favore, da quanto forte è l'impressione di carestia.
Ho fatto la spesa tra scaffali ordinatissimi, loro malgrado raramente toccati da massaie vogliose, e baldanzoso mi sono recato in cassa per esercitare il potere del mio bancomat.
E lì la tragedia, l'aberrazione, il dramma.
Gli scarsi acquirenti, per quanto pochi, erano tutti in coda nell'unica cassa aperta. Addirittura la fila formava un angolo retto, creando ancora di più senso di frustrazione e disagio.
Scrutando però con attenzione all'orizzonte, mimetizzata con i fustini di detersivo, c'era un'altra cassa disponibile. Lontana come un rifugio alpino, ma c'era.
Miracolo! Corro fin là con il mio cestello, ingaggio uno sprint vincente con un pensionato adiposo, ma - ahi - incontro lo sguardo d'acciaio della cassiera.
Massimo dieci pezzi.
Conto freneticamente: latte, mozzarelle, cereali, pane, mele biologiche. Sono solo otto, ce la faccio!
Nel frattempo i dannati della coda con i carrelli occhieggiano invidiosi, chiedono a gran voce di essere ammessi a questa cassa nonostante la loro spesa sia più abbondante.
Niente da fare, la signorina è teutonica: dodici pezzi compreso un minuscolo Crodino? Raus!


A mente fredda comprendo il dilemma che attanaglia il direttore: i clienti sono scarsi e quindi occorre ottimizzare i costi con poche cassiere.
Il paradosso è che quei pochi acquirenti sono trattati peggio anzichè con più cura. 
La situazione li costringe a mollare metà della spesa per accedere alla cassa veloce, oppure li scoraggia e loro abbandonano carrello e derrate alimentari.
Danno doppio, non torneranno più! E il deserto sarà sempre più arido!


Proviamo a pensare qualcosa di nuovo? Un'idea eretica mai provata?
Il centro commerciale è composto da vari negozi oltre al supermercato prettamente alimentare.
Ciascuno impiega almeno una persona, che spesso si annoia con sguardo bovino.
Capirete, se è vuoto l'alimentare, non può essere che il negozio di accessori rosso fragola brulichi di clienti.
E allora perchè non pensare a "casse diffuse" su tutta l'area dell'ipermercato?
Una condivisione delle risorse che permetta di dare un servizio migliore a tutti i clienti?
Se trovo coda alla cassa del supermercato oltrepasso la barriera senza pagare (fidatevi, si può fare, non cala un fulmine dal cielo) e mi reco in una delle casse poste nell'area comune a tutti gli esercizi commerciali.
Il primo addetto libero nelle vicinanze, magari quello che vende intimo, apre il registratore di cassa con la propria password, mi fa pagare e poi torna al suo negozio.
Io sono felice e domani tornerò lì.


Non vedo grossi problemi di sicurezza, in quanto i dispositivi antitaccheggio potrebbero essere posti alle uscite dell'intero ipermercato.
Inoltre si tratterebbe di una soluzione da adottare nei momenti di bassa affluenza, quando la sorveglianza è molto più semplice da eseguire.
Infine, sarebbe anche possibile istituire un sistema di fatturazioni tra esercizi dello stesso ipermercato che compensi il tempo trascorso da un addetto per smaltire la coda degli altri negozi.
Dopotutto ogni articolo ha un suo codice, ogni addetto ha la propria password e a fine periodo si saprà quanto ognuno ha lavorato per gli altri.


E il vecchietto non dovrà trasformarsi in un centometrista giamaicano per riuscire a pagare tre etti di carote in tempo per il pranzo.
Cosa ne pensate?

sabato 29 ottobre 2011

I vostri commenti: un'analogia con la cravatta anti-amatriciana

Il ricercatore Armando, noto per la sua tecnicità e pragmatismo, mi fa notare questa analogia vinilica con la cravatta double face:


..se posso aggiungere mi fai ricordare i dischi 45 giri di una volta..un lato bello con grande successo ,il retro una brutta canzone..ma il disco si vendeva in egual modo


Vero! Ma a mio avviso i due lati dovrebbero essere entrambi con fantasie valide. 
Mettiamoci nei panni di uno stilista. Immaginiamo di essere Versace.
Cosa escogiterà il suo genio cromatico per i due lati della cravatta? Proviamo:
Lato A: serpenti d'oro che si attorcigliano su un capitello verde ramarro;
Lato B: figure mitologiche blu elettrico con sfondo di colonne ioniche viola psichedelico.


Quale sarà il lato di successo e quale il lato brutto? Sono tutti e due equivalenti! Probabilmente entrambi orribili, ma si sa che di gusti non si deve mai discutere, soprattutto con Versace.


Tornando al tempo dei 45 giri in vinile, non tutti i lati B erano poi così brutti. 
Nel 1987 gli U2 uscirono con un lato A che fece epoca, soprattutto nel video. Era la incalzante Where the streets have no name.
Il suo lato B? Niente meno che Sweetest Thing, che ancora cantano nei loro concerti.
Eccole tutte e due:
LATO A: http://www.youtube.com/watch?v=GzZWSrr5wFI&ob=av3e
LATO B: http://www.youtube.com/watch?v=5WybiA263bw&ob=av2e


Certo che loro sono gli U2, mentre Versace, con tutto il rispetto...








venerdì 28 ottobre 2011

Cravatta Regimental vs. Amatriciana


Gocce, schizzi e pillacchere. Macchie, patacche e sbrodolate.
Siete maschi, state andando da un cliente importante e siete in bella copia con l'abito delle grandi occasioni?
Statene pure certi, alla prima occasione propizia una orribile chiazza si adagerà sulla vostra cravatta come una tarantola mortifera.
E non crediate che indossare protezioni da artificeri della NATO vi metta al riparo.
I tovaglioli sono colabrodi, quelli di carta assorbono e non riparano, i bavaglini sono vulnerabili ai fianchi, i pellicani da neonati francamente non presentabili in pubblico dopo i quattro anni di vita.

Nemmeno illudetevi che esistano terapie per eliminare la macchia proterva: polverine, solventi, rimedi della nonna, danze voodoo del cameriere, macumbe del barista, niente da fare.
La vostra medaglia di unto è lì e vi sfiderà con le parole di D'Annunzio a Fiume: hic manebimus optime, siamo qui per restarci.
Guerrieri mai rassegnati provate allora l'azione di forza, l'ultima carica di cavalleria, mandare allo sbaraglio la cravatta in lavanderia?
E' la strategia suicida del "muoia Sansone e tutti i filistei", valorosa, ma inutile.
La pillacchera scompare, ma la vostra preziosa cravatta si stropiccia senza speranza. 
Nobile decaduta, sarà irrimediabilmente condannata ad un futuro da straccio per asciugare bicchieri.


Ragazzi, è dura da accettare. 
Sta trionfando un'amatriciana ben condita là dove hanno fallito URSS, Cina e Cuba. Si sta per compiere una vera e propria rivoluzione di classe: la macchia plebea sconfigge l'altezzosa cravatta regimental. Bandiera rossa la trionferà!  
Finiremo allora sconfitti e umiliati come l'ultimo zar Romanov? Cederemo al nemico bisunto?
Niente affatto colleghi: organizziamo la resistenza, studiamo una strategia, siamo manager, ci pagano per questo.


Marciamo compatti, abbiamo l'arma segreta: è l'invincibile cravatta double face.
Ci colpisce a tradimento lo schizzo di aceto? Niente paura, stavolta ce ne facciamo un baffo.
Impassibili come un beefeater di Buckingham Palace ci sfiliamo la cravatta, la giriamo e ritorniamo perfetti dandy come un minuto prima.
Obiezioni? Ne prevedo un paio.
Se è possibile usare entrambi i lati, dove sarà posto il marchio? 
Risposta: siamo in guerra, dobbiamo combattere e allora lacrime, sangue e niente marchio! 
I soldati sono tutti uguali davanti al nemico.
Altra perplessità: ma nel fare il nodo non si noterà con disappunto che l'altro lato è di colore diverso?
Risposta numero 1: chi ha detto che dobbiamo confezionare i due lati di differenti colori? Potrebbero essere entrambi lilla con polipetti verde acqua (ah, la mia mitica cravatta di Cenci).
Risposta numero 2: in caso di colori diversi, lo stilista ci delizierà con con abbinamenti del suo inconfondibile gusto. 
Etro? Verde e Fucsia. 
D&G? Oro e Panna. 
Armani? Grigio piccione adolescente e marrone beccaccia maggiorenne. 
Hermès? Levieri afghani e purosangue scandinavi
Marinella? Fiorellini di campo e caprifogli di giugno.


All'assalto valorosi guerrieri! No pasaràn



giovedì 27 ottobre 2011

Ancora surreametri dalle vostre idee

La dolce Mariagrazia mi invia due idee di surreametri, la prima che rivela la sua indole metropolitana:

quanti cespuglietti d'erba hai visto spuntare faticosamente fra dei buchi sull'asfalto e hai pensato evviva ce l'ha fatta

La seconda che invece troppo spesso tutti dimentichiamo:

quante volte ti sei sentito troppo fortunato incrociando gli occhi sofferenti di un passante

Grazie mamma (Mariagrazia è lei...)

I vostri commenti: i Carmina Burana

Il ricercatore Armando, dopo avere letto un mio post di un paio di giorni fa in cui citavo i Carmina Burana, mi ha mandato il testo tradotto dal latino di uno di questi canti medioevali che raccontano la precarietà dell'uomo e il suo terrore dell'ignoto:

Lo ringrazio del suo regalo e volentieri riporto un passo:


Poiché provo nel mio animo un forte turbamento,al colmo dell’amarezza mi lamento di me stesso.
Formato di materia assai leggera,mi sento simile ad una foglia con la quale gioca il vento.
Mentre è proprio del saggio porre sulla roccia salde fondamenta,io stolto,mi paragonavo ad un fiume sempre in corsa che non si ferma mai sotto lo stesso cielo.
Vado alla deriva come una nave priva di nocchiero, come un uccello che vaga per le vie del cielo; non c’è catena che mi trattenga, né chiave che mi rinchiuda, cerco i miei simili e mi unisco così ai malvagi.
Qui sotto allego il link dove si può ascoltare il più famoso dei carmina burana cantato in chiave classica da un coro immenso di austeri nordeuropei in divisa da feldmarescialli:
e qui invece una terribile versione trance-remix del deejay Korsakoff, che come base ritmica si direbbe usi una motosega. E' talmente brutta che quasi quasi mi piace...

mercoledì 26 ottobre 2011

Archeo-bicamere

Critico d'arte e donna di 67 anni insieme nel sotterraneo di una pinacoteca.
No, no e ancora no! Maliziosi!
Non si tratta di una scorribanda di Vittorio Sgarbi attratto finalmente da una donna adulta, oltre che dal Botticelli.
E nemmeno di un'ennesima caccia al tesoro romanzata da Dan Brown.

Il fatto è successo a mia mamma (67 anni) che lavora come volontaria in una pinacoteca. Due giorni fa le è capitato l'elettrizzante compito di tenere compatto un gruppo di bibliotecari tedeschi in visita, mentre un critico d'arte faceva da guida.
Al termine del pomeriggio che immagino movimentato come un aperitivo a Ibiza, il critico le ha proposto di visitare insieme il sotterraneo della pinacoteca.
Essendo il personaggio di estrema fiducia, nemmeno per un attimo la mia mammina ha temuto la famigerata collezione di farfalle in chiave museale.
Si è avviata con fiducia nelle viscere dell'edificio.
Meraviglia delle meraviglie!
Sotto una volta di mattoni, ha potuto ammirare il foro di epoca latina posto esattamente nell'antico centro della città là dove si incrociano il cardo e il decumano, ovvero le due vie principali perpendicolari che costituivano l'ossatura di ogni città romana.

Pensate, il tutto perfettamente sconosciuto al pubblico. Questo è un esempio,ma possiamo aggiungere i ritrovamenti sotto la metropolitana di Roma, le archeo-cantine della Campania, il sottosuolo dei campi coltivati a mais di Aquileia. Ne abbiamo a bizzeffe in Italia.
Eppure.
Altrettante antichità giacciono come larve in superficie.
Eh sì, a parte alcuni esempi monumentali famosi nel mondo (il Colosseo, le terme di Caracalla. Paestum, Segesta, ecc.) tante nostre città presentano vestigia completamente ignorate.

Non dico abbandonate, a volte questi resti sono anche oggetto di manutenzione pubblica.
Dico ignorate. Non ce ne importa nulla.
Dobbiamo essere onesti e chiederci: perchè?
Voglio essere trasparente e provocatorio: perchè sono brutte.

Un esempio su tutti? Le terme romane di Milano.
A malapena tollerate dagli edifici opulenti in zona centro, sono un fazzoletto di spazio costituito da miseri mattoncini uno sopra l'altro che appaiono come residui dell'ultimo cantiere ancora da smaltire.
Hai voglia a fare gite scolastiche dove si spiega a bimbi vocianti che hanno duemila anni, che a destra c'era il calidarium, a sinistra il frigidarium e al centro il tepidarium.
Si vede solo un'accozzaglia di pietre.
Brutte sono, brutte restano e nessuno le guarda.

Volete renderle interessanti? Un metodo ci sarebbe.
Se proprio devo avere in città un anonima casa bicamere conservata dall'epoca avanti Cristo, almeno fatemi capire come ci si sentiva dentro.
Salvate i pezzi originali e poi montate una tensostruttura che completi il resto, fatemi entrare e mostratemi in quanti si viveva, dove si cucinava e dove era il bagno.
Datemi delle emozioni! Se non arrivano dalla bellezza dei sassi impilati, che arrivino dalla sensazione di abitarci.

Volete scommettere che, nonostante la qualità dell'edilizia odierna, tra duemila anni troveranno i resti del mio appartamento?
Non ho dubbi: l'amministrazione locale lo recinterà, gli archeologi avanzeranno teorie su cosa rappresentano tutti quei buchi nei muri (risposta: sono io che non so piantare i chiodi) e i bambini verranno in gita scolastica sbriciolando panini sul mio archeo-parquet.

martedì 25 ottobre 2011

I vostri commenti: Museum Of Non-Visible Art. Autore: Eidolon

Volentieri pubblico il commento che mi è arrivato questa mattina per e-mail.
Mittente una lettrice che chiameremo Eidolon per salvare il suo anonimato come lei desidera.
L'arrembante incipit filosofico mi ha inizialmente un po' spaventato, ma il link è fantastico e centrato in pieno.

in effetti vorrei commentare gli "oggetti inesistenti" che invece a mio avviso sono solo "(momentaneamente) invisibili".
Sì, perchè nessuno ha ancora avuto l'idea-intuizione di dare loro effettività...essi esistono già nello spazio delle varianti non ancora materializzate, per il momento..è solo questione di Tempo..

Scusate se interrompo, questa era l'ouverture arrembante...ecco qui sotto arriva il link.

e così vien ovvio citare James Franco e il suo Museo di arte non-visibile... del quale si può prendere visione su

Traduco velocemente il sito inglese. Trattasi di un museo che ci ricorda che viviamo in due mondi: quello fisico che si vede, e quello invisibile dei pensieri. Le opere d'arte quindi non si vedono, ma si legge solo la loro descrizione che ci apre gli occhi sul mondo parallelo fatto di pensieri.
Pensate sia troppo visionario? Leggete un po' qui sotto...
  
Essenzialmente geniale! Esempio tangibile di come i surreametri siano tali solo fintanto che non incidono realmente sull'economia.
Forse uno sguardo cinico potrebbe dire che in fondo non c'è niente di nuovo, se pensiamo a come si formano i prezzi dei titoli nel mercato borsistico...)
Però non posso non citare il caso di Aimee Davison, la quale ha deciso di sostenere il progetto dell'eclettico James Franco comprando il "pezzo" (se così si pò definire) più costoso, il cui evocativo titolo è “Conceptual-Fresh Air” pagandolo $10,000...

Traduzione dal sito: l'acquirente (un po' eccentrica, ammettiamolo) Aimee Davison ha comprato la descrizione di un recipiente dotato di un'infinita quantità di ossigeno per 10.000$.
Per questa cifra non ha nemmeno una piccola bomboletta giusto come souvenir, ma solo la descrizione del suo ossigeno scritta su un diploma!

Ma Eidolon è uno chef dalle mille portate, sapientemente tiene il meglio per la fine, eccolo:

con l'occasione mi ricollego al precedente post sugli acronimi, vera arte americana!
Il museo di James Franco si chiama Museum Of Non-visible Art, provate voi a scoprire quale sigla ne esce...




lunedì 24 ottobre 2011

Tegole senza regole

Poche cose stimolano la mia immaginazione distruttiva come volare in aereo.
Pur compiendo numerosi viaggi all'anno su questo mezzo, nulla riesce a fermare l'orribile metamorfosi che si scatena in me.
Kafka e il suo scarafaggio sono un cartone animato della Disney, in confronto.


Cosa succede? 


Fino all'imbarco spendo come un mafioso russo nei negozi improbabili dell'aeroporto: riviste patinate, snack messicani e gagdet postmoderni.
Al momento del decollo mi trasformo in un penitente medioevale. 
Sento la vita appesa a un filo, vedo il mondo scorrere in basso e mortifico la mia carne. 
Mi stringo il cilicio della cintura di sicurezza e osservo con cipiglio da Savonarola i piaceri sibariti del pasto offerto dalla compagni aerea.
In altre parole ho una fifa blu.


Sarà la sindrome da ultimo saluto, sarà per evitare che il mio vicino di posto mi veda contratto in un rictus di terrore, ma nel momento del decollo getto sempre un'occhiata strabica dall'oblò.


E per un attimo il mondo visto dall'alto è meraviglioso. 


L'idroscalo appare come un lago alpino appena fuori città, la tangenziale un ameno sentiero percorso da macchine-formiche e Milano 2 un alpeggio dolomitico.
Ogni città da cui ci si alza in volo ha un colore particolare vista da sopra, quello dei suoi tetti. Milano è grigia un po' come tutto il resto, Venezia è rosso specchiato nella laguna d'argento, Roma bianca come il suo tufo, e così via.


L'atterraggio è tuttavia il momento in cui i carmina burana più cupi risuonano in me. L'avvicinamento a quella minuscola pista là sotto è magia nera, mi ripeto che il pilota deve avere una mira da cestista per centrarla esattamente.
Ancora una volta il mondo mi riappare visto dall'alto, ma che differenza! 
E' tutto diverso, è un altra nazione, è il nostro miracolo tutto umano quello di poterci arrivare in poche ore .
E che sorpresa meravigliosa i tetti che si incontrano, è la prima inquadratura della nuova realtà che andremo a vivere.
Bruxelles? Piccole casette a schiera con tetti ad angolo acuto grigi. Parigi? Tetti grigi brillanti di ardesia tagliati dalla Senna. Las Vegas? Tetti rossi contornati da piscine azzurre. Chicago? Sommità di grattacieli brillanti sul lago. Seattle? Distese di vetrate tra boschi di conifere e oceano.


Ebbene, io ho un sogno.
Offrire a chi atterra in città una sensazione nuova, quella di essere arrivato in un luogo colorato. Come il mio paese, come la nostra fantasia, come la nostra creatività.
Sogno tetti costruiti con tegole di colori tutti diversi e materiali differenti: verdi brillante, blu cobalto, fucsia, gialle ocra intervallate da vetri, acciaio, legno e mattoni.
Mi immagino sorrisi dalla prima classe fino agli strapuntini delle hostess, amministratori delegati che strabuzzano gli occhi e commercialisti che vorranno passeggiare con il naso per aria.
Fantastico di uscire in un giorno di pioggia per ammirare i tetti variopinti rifratti dall'acqua.


Alla fin fine, se tutto questo colore ci stancherà, potremo sempre dare uno sguardo rilassato alla cappa di smog grigio che sa così tanto di bei vecchi tempi.

domenica 23 ottobre 2011

L'agenda delle ore origami


Io confesso, mea maxima culpa. 
Amo la musica country americana.
Non è ricercata, non è esotica e non conosce derive di tendenza.
Mi piace inserirla fra altri pezzi iper-elaborati che popolano il mio Ipod, non diversamente da un carnoso hamburger in mezzo ad algidi sashimi.
Il country racconta di persone semplici che compiono gesti ordinari e che provano le emozioni di ognuno: amore, delusione, lavoro duro.
In quelle canzoni non si sperimentano liriche raffinate, si raccontano storie di tutti i giorni.

Nel 1980 la burrosa cantante country Dolly Parton fu conosciuta anche da noi in Europa per un brano che parlava della tipica giornata di lavoro, intitolato “9 to 5”, ovvero “dalle 9 alle 5”.
Si parla delle famose otto ore lavorative, anche se non è chiaro quando la vistosa Dolly pianificasse la pausa pranzo. Probabilmente un milk-shake fosforescente trangugiato dietro la scrivania senza neanche alzare gli occhi dagli statini delle partite doppie.

Trent’anni dopo, nel 2011, la platinata cantante potrebbe regalarci il sequel di questa canzone. Personalmente, oltre ad una pettinatura diversa, le proporrei un titolo nuovo: “9 to 9”, “dalle 9 alle 9” orario continuato.
Eh sì cara Dolly, con la rivoluzione muta degli ultimi anni le otto ore consecutive sono sempre più rare. Niente milk-shake fosforescente i ufficio, niente tempi definiti a priori, niente spesa di ritorno a casa.
Sta scomparendo la distinzione geografica fra tempo di lavoro trascorso in azienda e tempo libero trascorso fuori.
E’ sempre più labile la differenza antropologica fra persona al lavoro e persona nel tempo libero.
Sono due dimensioni che si intrecciano, come i capelli rossi di Pippi Calzelunghe.
L’ufficio inteso come luogo di lavoro spesso è sostituito dal soggiorno di casa con connessione Wi-Fi. Spesso si va in vacanza con il PC e si controllano le e-mail di lavoro al mare.
Succede così di andare in palestra nel primo pomeriggio del martedì e di inviare un’offerta importante verso mezzanotte. 
Di vedere il sottoscritto chiudere un budget dentro alla Cattedrale di Siviglia.

Tempi annodati, tempi ibridi: tutti ce ne siamo accorti eccetto chi fabbrica le nostre agende di lavoro.
Ma le avete viste? Sono delle pergamene archeologiche, stanno alla nostra vita professionale come il calendario di Frate Indovino alla NASA.
Nelle prime pagine troviamo ancora i prefissi telefonici, i fusi orari e nei casi più estremi addirittura le festività nazionali.
Ogni giorno dal lunedì al venerdì vale una pagina, mentre sabato e domenica ne occupano metà ciascuno, a simboleggiare tempi di svago.
Peccato che l’anno scorso io abbia lavorato 20 dei 52 week-end a disposizione, riposando durante la settimana mai in un giorno fisso, ma in base ai carichi di lavoro.

Cari ideatori di organizer, catalogatori di calendari perpetui, costruitemi un’agenda origami. Dove io possa piegare le ore di ogni giorno per come davvero le uso, in cui possa crearmi una notte di lavoro e liberarmi di un giovedì mattina. Dove non ci sia mai una settimana uguale all’altra e succedano domeniche più pesanti dei lunedì.
Dove alla fine del mese i fogli di ogni giorno siano così diversi da creare un origami a forma di pterodattilo.

Come dite? Se le agende non ti piacciono puoi passare al Blackberry? E chi mi saprà più dare allora il prefisso di Isernia in prima pagina?

sabato 22 ottobre 2011

A voi la parola: ecco i vostri surreametri

Grazie, grazie grazie! Ve l'avevo chiesto e vi ho ricevuto come un regalo inatteso.
Mi avete mandato per posta i vostri suggerimenti di parametri surreali legati alla nostra Felicità Interna Lorda o FIL (vedi post di ieri).


Garantendo l'anonimato delle fonti, eccoli!
1) quando è l'ultima volta in cui hai sentito il profumo del pane appena sfornato in un negozio?
2) in quanto tempo ti addormenti?
3) di cosa sei soddisfatto oggi?
4) Quanti sogni hai? Riesci a raccontarli?


Ringrazio chi mi ha donato queste idee e anche chi chiede di avvisare l'Istat per inserirli nel censimento 2011. 
Ne aspetto ancora e ancora, a presto cari ideatori surreali.



venerdì 21 ottobre 2011

Surreametri

Lo confesso: detesto gli acronimi. Quelle sigle costruite con le iniziali di altre parole che indicano un concetto senza doverlo spiegare.
E' un uso mutuato dai miei amatissimi USA, che nelle loro linguaggio ad angoli retti rifiutano spirali, ellissi e cuspidi tanto care a noi latini.
La loro visione ingegneristica dei termini ci ha così regalato il termine WASP (White Anglo-Saxon Protestant) che in quattro lettere racconta la loro classe sociale più privilegiata e influente.
Il loro becco da condor ha scarnificato gli ampollosi commenti europei, regalandoci sublimi ASAP (As Soon As Possible), BBL (Be Back Later) o AFAIK (As Far As I Know).
Alcuni amanti dello splatter usano questi termini nelle loro e-mail in italiano, provocando spesso ilarità nei lettori.

L'economia, triste scienza per definizione, degli acronimi ha fatto un vessillo, un simbolo da portare nella crociata contro i freak che sperperano aggettivi qualificativi.
Sicuramente la sigla più famosa, che addirittura ho sentito pronunciare in pizzeria, è PIL (Prodotto Interno Lordo).
Ora è di moda, è il faro di ogni conversazione davanti alla macchinetta del caffè, tutti hanno qualcosa da commentare sul nostro PIL. 
Se cala, si chiede l'esonero del ministro non diversamente dal licenziamento dell'allenatore.
La Cina che cresce mostruosamente più del 9% deve avere il Mourinho dei dicasteri economici.

Ma cos'è in due parole il PIL? Cito Borsaitaliana.it:
"Il Prodotto Interno Lordo (PIL) rappresenta il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di un paese in un certo intervallo di tempo, generalmente l’anno. Il PIL può essere anche definito come il valore della ricchezza o del benessere di un paese."
Corbezzoli, ecco perchè tutti ne discutiamo. Ci dice quanti soldi abbiamo.

Rispettosamente, dissento.
E rubo un acronimo al piccolo stato tibetano del Bhutan, confidando nella saggezza buddhista che sa creare sigle da meditazione.
Voglio anch'io quello che loro hanno inventato! Il FIL, ovvero l'indice di Felicità Interna Lorda.
Pensate che meraviglia vederlo pubblicato ogni mese sul salmonato Sole 24 Ore.

L'unico problema appare come misurarlo. Misurare la felicità è un ossimoro, una contraddizione interna, una utopia da pazzi.
In effetti il Bhutan ha cercato di darsi dei parametri oggettivi e scientifici (sviluppo economico equo, conservazione ambientale, cultura, buon governo): cosa ne è uscito? percentuali da triste scienza, gabbie per lo spirito.

Ma volete mettere con i surreametri (parametri surreali)?
Me li sono inventati e non sono un ragioniere, ma solo così io riuscirei a quantificare il nostro FIL ed esserne fiero, perchè no.

Eccone alcuni:
1) quante volte hai guardato il cielo?
2) quanti passi hai compiuto camminando nel centro storico della tua città?
3) quanto ti senti migliorato rispetto a ieri?
4) quanti alberi conti se ti affacci fuori dalla tua finestra?
5) quante persone saluti se passeggi nei paraggi di casa tua?

Sono solo cinque, quelli che da tanto mi girano per la testa. Ma vorrei raccoglierne e pubblicarne il più possibile, soprattutto se altrui. Me ne inviate? Qui oppure sulla mia mail fa lo stesso.
A presto, siate ideatori surreali, fa bene.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il brivido di pag. 20

Come possiamo procurarci ogni giorno a casa nostra il brivido di un ottovolante? Lo stomaco in gola, la visione del precipizio, la discesa vorticosa e il giro della morte?.

Semplice, aprendo un quotidiano verso pagina 20 e leggendo le quotazioni di Borsa.
E' un brivido economico e quasi sadico per chi non possiede azioni, per i sentimentali dei BOT e i neanderthaliani del conto corrente sempre liquido. Se ne stanno al sicuro e si divertono ad osservare gli altri malcapitati che soffrono e pagano per farlo.
Questi ultimi sfogliano il quotidiano come giocatori di Texas Poker, pagina dopo pagina lentamente, pregustando e temendo il momento della grande rivelazione: la chiusura di ieri dei listini. Da quel momento partono le discese ardite, le risalite, terribili nausee e grugniti suini.


Ciò che più mi spaventa è l'atmosfera asettica della pagina incriminata. 
Tutti i nomi delle aziende sono stampati con il medesimo carattere, i numeri presentati incolonnati a caratteri sottili, le percentuali di perdita o guadagno riportate come gli elementi chimici su una bottiglia di acqua minerale.
Sono le montagne russe dell'S&P MIB, simili ad un vulcano islandese: fuori di ghiaccio, dentro
colme di lava bollente.


Però che ingiustizia, se ci pensiamo: al luna park per invogliarci a provare nausee e vertigini ci invitano sull'ottovolante con diorami da film fantasy. Castelli, galeoni, missili.
Tutto pur di stimolare il nostro appetito di adrenalina.


Ma perchè non colorare anche gli imbalsamati titolli di borsa?
Presentiamo le aziende con il loro logo, balzerebbe subito all'occhio l'incredibile varietà di imprese che ancora arricchisce il nostro paese e ne riconosceremmo qualcuna in più.
Non esistono solo Fiat, Unicredit e Fondiaria-SAI.
Annoveriamo alla Borsa di Milano gli Antichi Pellettieri dal fascino rinascimentale e gli enigmatici Ahol Kon.
Troviamo azioni con il nome del nostro vicino di casa, le D'Amico; addirittura potremmo acquistare titoli rasserenanti chiamati "Le Buone Società". Per i più ermetici suggerisco le Fullfix.
Chissà come sono le insegne all'ingresso delle loro aziende. Mi piacerebbe vederle sul giornale vicino al loro nome. Mi parlerebbero di uomini e donne che danno del loro meglio.
E poi vi prego, mettete un po' di cuore nei vostri grafici: quelle colonne con le percentuali di perdita o guadagno scritte nude e crude sono tristi epitaffi.
C'è il nostro mondo dietro quelle cifre, ci sono famiglie che lavorano e persino ministri che si disperano.
Chiedo troppo se volessi vedere un faccino sorridente vicino al titolo che oggi ha guadagnato il 2%? E una lacrimuccia stilizzata accanto all'azione che oggi è crollata? O un verde speranza se si parla di acquisizione?

Forse a torto, ma così non mi sentirei un piccolo investitore che deve leggere piccoli numeri.
Mi sentirei parte di una comunità.

martedì 18 ottobre 2011

Una sala riunioni irresistibile

A parte i locali dei Mc Donald’s sparsi per il mondo, credo che pochi ambienti manifestino la stessa uniformità militaresca delle sale riunioni. aziendali
Sembra che architetti e arredatori, nel concepirle, manifestino un grado di fantasìa più basso di un ragioniere di banca.
Ampie come palestre o anguste come camerette bohemien, lignee alla stregua di stube altoatesine o mostri Manga di acciaio e vetro, le sale riunioni in verità sono tutte esattamente copie l’una dell’altra.

Tavolo lungo, spesso ellittico e in casi arcaici a forma rettangolare. Numero di sedie variabile. Pareti decorate con opere di propaganda aziendale, tranne una che funge da schermo per la proiezione delle immancabili slide.
Nei casi aziendali più trasgressivi ci si spinge a dotare i posti di lavoro di bottigliette di acqua minerale. Mi è capitato di assistere anche al consumo di acqua tonica, ma erano degli edonisti estremi.  Non fanno testo.

Eppure quante volte alle persone riunite in queste sale si chiede creatività, si vogliono da loro idee nuove, si stimolano soluzioni creative.
Beh, difficile che guardandosi intorno arrivi l’ispirazione. Come chiedere a un minatore di descriverci le forme delle nuvole.
Ambienti uniformi, sedie uniformi, pareti ottimizzate per le slide…indovinate cosa ne esce?

Fermiamoci un attimo e concediamoci una visione.  La sala riunioni che prende ispirazione da una sala giochi per bambini. Proprio così, l’ambiente per eccellenza  dove fantasia e creatività volano a briglie sciolte.
Giocattoli colorati sparsi sul pavimento, sedie, sgabelli, cuscini e divani dove ogni bimbo gioca o disegna nella posizione che preferisce. Alle pareti altri disegni o personaggi colorati.
Non sarebbe fantastico? L’amministratore delegato su un materasso informe, il direttore marketing che spiega seduto per terra a gambe incrociate, la forza vendite che sceglie sedili di diversi colori. Io mi prenderei lo sgabellino verde e litigherei per tenermelo tutto il giorno.
Le pareti con lavagne e pennarelli su cui scrivere ed interagire con coloro che parlano.
Addirittura la merenda con pane, burro e zucchero a metà riunione.

E infine, ma so che questa è un’utopia, sogno disegni e ragionamenti creativi al posto delle slide.
Mi coinvolgono come un filmino delle vacanze dopo una cena vegetariana.

lunedì 17 ottobre 2011

La bicisporta

Ho visto vecchiette in equilibrio come trapezisti, massaie funambole e pensionati che sfidano le leggi di Newton. 
Persino un aitante bodybuilder ondeggiava nonostante bicipiti e pettorali.
Niente può eguagliare il brivido da stuntmen di andare in bicicletta con la spesa attaccata al manubrio. Altro che Mission Impossible.


Hai due sacchetti che pendono? 
Allora ti occorre una bilancia di precisione per suddividere il carico: un etto di speck da una parte, una scatola di sofficini dall'altra. E attento ad acquisti incauti come un flacone di ammorbidente! Quei 3 kg abbondanti potranno essere compensati nel secondo sacchetto soltanto da una confezione famiglia di mezze penne.

Hai un sacchetto solo penzoloni? Riesci ad rimanere dritto lungo la pista ciclabile? Allora probabilmente sei stato allevato dalla famiglia Orfei. Avrai imparato come bilanciare il fardello laterale con il peso del corpo, compensando con spalle e schiena. Insomma, sei un fenomeno.


Il problema appare di facile risoluzione applicando un cestino alla bicicletta. Ma è solo un'apparenza. 
La placida massaia in effetti dota la sua olandesina di cestello, ma spesso lì dentro ci mette il cane, che vorrebbe zampettare a lato e invece è trasportato come un imperatore maya.
Per non parlare di chi possiede una mountain bike, o una citybike, o una electric bike o una race bike. Lì montare il cestello vuol dire mettere un portapacchi a una Ferrari. Non esiste, bisogna preservare la purezza del design.

E allora vai con i sacchetti penzolanti come due caciotte e andatura da ubriachi sulla stretta pista ciclabile.

Qui ci vuole un'idea: la bicisporta!
Semplicissimo: una sporta lunga e stretta con due anelli da attaccare alle estremità della canna della bicicletta. Il suo peso insiste giusto nel mezzo senza sbilanciare lo sventurato cenaturo, trasporta una spesa media e la si potrebbe persino personalizzare con loghi di sponsor! Di più! Impreziosirla con brillanti Swarovski per una spesa chic!
Il merluzzo e la carta igienica tra gli Swarovski...wow che idea...


Nota: spunto di base preso da una puntata di Deejay chiama Italia su Radio Deejay






domenica 16 ottobre 2011

Recensfera

Ieri ho terminato di leggere un libro per il quale non finirò mai di ringraziare la mia magica bibliotecaria Antonietta.
Lei sta ai libri come Gattuso sta al calcio: entrambi con i pochi ingredienti che hanno in mano ti inventano sempre la giocata da applausi.
Non importa se la biblioteca dove lavora Antonietta è una succursale di periferia con pochi scaffali: lei conosce i suoi libri uno per uno, ti parla per 5 minuti e poi con decisione ti consiglia il volume da prendere in prestito.
Se fosse vissuta un secolo fa nella Vienna di Freud e Jung, a loro due sarebbero toccati i test di Sorrisi e Canzoni e a lei i cervelli dei nobili nevrotici.


Ma torniamo al libro che ho terminato: è di un autore finlandese, tale Arto Paasilinna (non è un mobile dell'Ikea, si chiama proprio così). 
Scritto nel 1988 è stato tradotto nel 2003 dalla casa editrice Iperborea. Cosa può significare questa doppia datazione? Beh, se non altro che il racconto era ancora così vivace e attuale che 15 anni dopo meritava il costo di un traduttore e della pubblicazione.
Brava Antonietta, brava l'intraprendente Iperborea, bravo Paasilinna, mi sono goduto tutto il libro dalla pagina 1 alla pagina 198 dove campeggiava la parola "FINE".


Per sbaglio ho girato però alla pag. 199. Orrore, cigolìo di ossa, puzza di zolfo.
C'era una recensione del romanzo appena concluso.
E siccome ognuno di noi desidera sempre toccare il fondo dell'abisso, me la sono letta.
Non so perchè l'abbia fatto, odio le recensioni, ma ho commesso peccato e l'ho letta.
L'effetto sull'atmosfera del libro è stato come un brontolìo di stomaco durante un concerto di Mozart: entrambi sono insieme di suoni, ma un apparato digerente che gorgoglia rovina irrimediabilmente la sinfonìa.
E così è per le recensioni: sono parole scritte esattamente come il libro che commentano, però emettono rumori molesti anche quando lo lodano. E radono tutto al suolo.


Basta, aboliamo le recensioni. Sono espressione meschina dell'ego di chi legge, il quale trae dal libro un'occasione per avere visibilità.
Non sono d'aiuto a nessuno, non servono a nulla: non mi interessa conoscere cosa pensa lo studioso calvo con il papillon. E me ne impippo del quarto di copertina dove il responsabile marketing della casa editrice mi declama il romanzo come un venditore di grattugie alla sagra di paese. Voglio leggere e farmi un'idea da solo.


Qui ci vuole un'idea. Bisogna aiutare chi proprio non riesce a rinunciare ad un commento su un romanzo. Lanciamogli un salvagente, ma sì: chissà che una volta ripescato non diventi buono.
Che ne dite di passare alla recensfera? Non è un'ambientazione di un film di fantascienza ma l'unione dei due termini "recensione" e "atmosfera".
Intendo questo: niente commenti, tentativi di spiegazione, paroloni inutili su un libro che va solo e comunque letto. 
Ma un consiglio sull'atmosfera che può accompagnare e valorizzare la mia lettura, questo sì forse sarebbe utile.
Avete mai notato come varia il nostro piacere di lettura in base a dove ci troviamo? Ci sono libri che sono fantastici a letto, ma insipidi in giardino con il sole. Romanzi da divano con luce calda, racconti che danno i brividi durante una cena di lavoro solitaria in hotel. Addirittura mi ricordo di un libro di Ken Follett perfetto per il mio volo Washington-Seattle. 
Si intitolava "Un luogo chiamato libertà", narrava dell'epopea della frontiera americana e la vicenda si snodava mentre l'aereo andava verso ovest. Sembrava di viverlo in quel momento.


Allo studioso calvo e al critico barbudo chiedo: risparmiatemi le vostre interpretazioni sociali del testo, amputate le vostre dotte opinioni sul racconto, ma consigliatemi con quale atmosfera me lo godrò di più.
Beh, sempre che lo abbiate letto davvero si intende.

sabato 15 ottobre 2011

L'orologio del tempo da vivere

Non riesco a togliermi dalla testa la crudeltà dell’orologio.
Caspita, un macchinario creato dall’uomo che misura in modo asettico e preciso il più grande mistero della vita: lo scorrere del tempo.
Un insieme di rotelle dentate assemblate da occhiuti artigiani svizzeri scandisce ogni attimo della nostra vita che non tornerà più.
E quando va male, al posto delle rotelle ci sono le batterie e al posto degli svizzeri ci sono catene di montaggio popolate da alieni asiatici.
Diabolico, arimanico, disumano.
Eppure l’orologio fu creato dall’uomo, da frati medievali per la precisione, che si cimentarono nei primi ingranaggi enormi che facevano funzionare le lancette sui campanili.

Sai cosa penso che sia ingiusto? Il semplice fatto che venga misurato in segmenti uniformi un concetto così diverso per ognuno come il tempo.
Quei 5 minuti che ho aspettato in coda con i bagagli prima di fare check-out in hotel erano interminabili.
Ma un’ora abbondante trascorsa a correre nel mio parco preferito con la mia musica che mi fa da sottofondo mi sembra impossibile finisca così presto.
Eppure per lo stupido orologio inventato dall’uomo, l’attesa al check-out vale un dodicesimo della corsa nel parco.
Ma scherziamo?

Misurare il tempo è come volere conoscere la superficie in metri quadrati di una mandria di cavalli al galoppo nella prateria.
Ecco cosa ci serve: l’orologio del tempo da vivere.
Pensateci, quante informazioni inutili troviamo sugli orologi: ci interessa davvero conoscere le fasi lunari come uno scienziato della NASA? Oppure avere un cronometro da giudice olimpico dei 100 metri piani? O addirittura un calendario perpetuo, quando non so nemmeno se domani mangerò pasta o risotto.

Non voglio più che sia lui a decidere quanti minuti stanno passando.
Sono io che decido quanto dovranno durare i miei tempi.
E allora forza orologio del tempo da vivere!
Via complicazioni e meccanismi, solo una rotella per variare la velocità delle lancette e una per decidere la sfumatura del quadrante. 
Semplice, veloce e intuitivo.
Il momento che sto vivendo è stupendo e non vorrei finisse mai? Seleziono “pianissimo”, le lancette rallentano fin quasi a fermarsi. Vado poi su “intenso” e il quadrante diventa arancione. Il tempo è fermo per tutto il tempo che deciderò.
Mai più la frase killer di ogni conversazione “oddìo come passa il tempo”. No che non passa: lo fermo e lo coloro io.

Ma le lancette possono anche accelerare, il quadrante quasi scomparire se selezionerò “avanti tutta” e “inosservato”.
Quando sto lavorando ad un progetto che non mi piace, quando faccio la fila all’Ufficio Postale, mentre mangio la minestra liofilizzata.
Cerco di sbrigarmela in fretta, di mettere alle spalle presto il problema. Voglio che finisca subito.
E il mio orologio del tempo da vivere scandirà il tempo con il mio ritmo: “avanti tutta – inosservato”.

Il mio sogno? Potere selezionare “sereno” su un quadrante verde come una felce. 

venerdì 14 ottobre 2011

La spesa in gabbia

Non c'è niente da fare: possiamo scegliere una qualunque insegna dove fare la spesa. Vai pure in ipermercati grandi come aeroporti, oppure sfacchina a piedi fino ai piccoli supermercati di quartiere, ma loro sono sempre lì.

Sembrano piccole prigioni messe in coda, gabbie di ferro sgraziate di cui dobbiamo servirci per accatastare la nostra spesa. Cosa sono? Facile, i carrelli della spesa! Quelle grate di metallo con ruote, dentro alle quali le mozzarelle stanno in carcere come camorristi a Poggioreale. Dove le mele scontano il 41bis e il prosciutto langue in cella.
Ma come?? Tutta la grande distribuzione alimentare comunica calore, amicizia verso il consumatore e prodotti freschi. E poi ci dota di carcasse antidiluviane dove stoccare tutto questo ben di dio?

Qui ci vuole un'idea: personalizziamoli!

Meno gabbie, più allegria. Basta acciaio, più colori.
Ma sogniamo che meraviglia: il supermercato sotto casa che sui quattro lati del carrello simula l'architettura del quartiere in cui si trova. Bello! Frutta e verdura trasportate su un mezzo con ruote che ci ricorda le case dove faremo ritorno.
Oppure l'ipermercato del centro balneare che ci propone dei piccoli pescherecci variopinti dove portare la nostra spesa estiva.
E ancora, l'ipermercato metropolitano di periferia che ci rallegra con incredibili corolle di fiori dove stoccare i nostri acquisti.
E lo spaccio di prodotti bio? Anche lì carrelli fabbricati in fonderia. Io ci vorrei cestoni di vimini magari ricavati dai residui di lavorazione dei cereali che mangio.

Insomma, ci sono davvero tanti modi per trasformare una gabbia con ruote cigolanti in un mezzo piacevole da portare, che aumenti il nostro piacere di acquisto e che ci faccia sentire parte dell'ambiente che vorremmo respirare.

Cosa ne pensate?

giovedì 13 ottobre 2011

Benvenuti

Immaginate un oceano immenso, salato, a volte calmo e a volte in tempesta.
E' la nostra vita quotidiana fatta di consuetudini, reazioni sempre uguali a stimoli sempre analoghi. Adesso sogniamo: sopra questo oceano buio vediamo luci calde uscire da accoglienti casette di legno che galleggiano barcollando.
Sono le nostre timide idee che brillano per un istante e che non riusciamo mai a capire se sono enormi cavolate o illuminazioni che cambieranno il mondo.
Entrate nella mia baita e ditemi cosa provate; se vorrete mi inviterete nelle vostre.
In altre parole: ci sentiremo di pubblicare e fare conoscere una nuova idea su tutto ciò che ci passa per la testa. Scriverla sarà un primo passo per realizzarla. E se a qualcuno non piacerà? Forse vuol dire che siamo davvero sulla buona strada...